C’è questa donna, grassa. Molto grassa. Si chiama Laura. La conosco. O forse no. Forse l’ho sognata. Però me la ricordo, me la ricordo bene. Anzi, la vedo, come fosse qui davanti e la sento, o meglio, sento i suoi pensieri…
Indossa una vestaglia color latte su cui sono stampate piccole pecore dalle gambe sottili che calzano grossi scarponi colorati: rossi, verdi, blu. Le pecore sono molte e occupano quiete l’intero pianeta Laura, dal peso di centodieci chili, distribuiti malamente lungo un metro e sessantuno di altezza.
È seduta a tavola e compila la lista della spesa da fare domani al supermercato.
Le pecore sorridono e anche lei, né le une né l’altra sanno bene perché.
Forse solo perché sorridendo è più facile tirare avanti. Sempre che una ci riesca o, comunque, fino a che una ci riesce.
Lei finora c’è riuscita, o almeno questo è ciò che pensa, nonostante difficoltà, delusioni, abbandoni, fatica, solitudine. Le pecore ci riescono semplicemente perché qualcuno le ha disegnate così, con quel sorriso tranquillo, pacato, appagato.
Rilegge quel che ha scritto, non le viene in mente altro e posa la penna.
È l’ora di andare a letto, anche se non ne ha molta voglia: vorrebbe qualche cosa da fare, qualcuno con cui uscire, parlare.
Una pecora con gli scarponi verdi la guarda dall’avambraccio sinistro, lei le restituisce lo sguardo e nel farlo avverte come un solletico sulla guancia.
È una lacrima che scende lenta.
“Non voglio piangere. Non serve.” Dice alla pecora e sembra che la pecora, con i suoi scarponi verdi, annuisca.
Pecore su una vestaglia comprata al supermercato: anche la sua vita è da supermercato, tutto quello che fa è da supermercato: lavorare, mangiare, dormire, leggere, ascoltare musica. Una moltitudine di azioni e di cose in cui affogare, smarrirsi, poi prendere questo e quello e quell’altro ancora per sentirsi alla fine sempre più vuota.
Anche se “vuota” non è il vocabolo adatto per descriverla. Proprio no. È grassa, come ho detto. Irrimediabilmente grassa.
Forse c’è un punto di non ritorno per l’ingrassare e magari lo ha già superato. Oppure potrebbe ancora perdere un po’ di quel peso, se decidesse di provarci.
Scuote il capo: non ci proverà.
No, non ci proverà. Ormai, il suo grasso è un compagno da cui trova impensabile separarsi, non tanto per la difficoltà di seguire una dieta quanto perché la sovrabbondanza di carne che l’avvolge morbida e calda come una cuccia confortevole, è il suo guscio di chiocciola gigante dove si rifugia perennemente e da cui si affaccia di quando in quando per guardare la vita che le scorre intorno. Se ne sta lì, nascosta e protetta dagli spigoli che potrebbero ferirla, dal duro che la circonda, come un grosso cactus di quelli che le piacciono tanto.
Forse ha una predilezione per le piante grasse perché le somigliano.
Anche se, a ben vedere, non le somigliano per niente: loro hanno le spine e lei no. E poi loro, sia pure di rado, fioriscono e lei no.
Comunque sia, riesce a tirare avanti, no? E forse senza essere neppure troppo infelice.
Talvolta, però, come stasera, il grigio l’avvolge in un bozzolo appiccicoso e le toglie il respiro. Tutto si rivela allora impietosamente insensato, vano. Un percorso assurdo e insignificante verso una meta nota e ignota nello stesso tempo: la morte.
Sospira.
Ecco, sospira ancora, guardando senza vederle le pecore con gli scarponi colorati che continuano a sorridere dalla vestaglia. Se le vedesse vorrebbe spiegare loro che, in realtà, non c’è proprio niente per cui sorridere.
Niente.
(In realtà è un adattamento del primo capitolo di “Pecore con gli scarponi“, una mia storia a puntate ancora incompleta)