(titolo originale Cakes and Ale or, The Skeleton in the Cupboard (1930); trad. Franco Salvatorelli (2004))
Circa un anno fa ho scaricato questo ebook perché gratuito, poi l’ho dimenticato nella mia libreria virtuale. Qualche giorno fa ho scoperto di averlo (dovrei dire riscoperto) e ho iniziato a leggerlo. Negli anni ho letto e apprezzato vari romanzi di Maugham ed ero abbastanza sicura che mi sarebbe piaciuto.
E, infatti, mi ha subito conquistata per la sua ironia, elegante ma graffiante. In parte i suoi strali sono diretti contro gli scrittori e in parte sulle convenzioni sociali e le ipocrisie. È un racconto anche autobiografico, ed ha per narratore uno scrittore. Una storia di scrittori: un tema che mi intriga sempre. In questo caso, per quanto i critici e i contemporanei abbiano voluto riconoscere nei personaggi – altri scrittori, oltre al narratore, che comunque si tiene sullo sfondo come autore – nomi famosi dell’epoca, trovo che i personaggi, con le loro debolezze, vizi e virtù, siano molto attuali. Del resto Maugham era/è un grande romanziere, a mio parere.
Il romanzo è sostanzialmente un susseguirsi di flashback: al narratore, lo scrittore Willie Ashenden, viene chiesta da un altro scrittore, Alroy Kear, di raccontargli quello che ricorda di un famoso romanziere, Edward Driffield, morto da poco, dato che la vedova lo ha incaricato di scrivere un libro su di lui. Questa richiesta è l’occasione per Aschenden di ricordare Driffield e la sua prima moglie Rosie, da lui conosciuti quando era adolescente e poi frequentati anche qualche anno dopo, quando a Londra studiava medicina.
Ed è nel rievocare questi ricordi e nel descrivere Kear e la vedova di Driffield, la seconda moglie, che l’ironia si fa spesso feroce, contrapposta a una sorta di tenerezza mista ad ammirazione verso Rosie, donna semplice e istintiva, di costumi liberi e sincera.
Lo stile e, soprattutto, il tono, caratterizzano e rendono particolarmente godibile il romanzo che, comunque, ho trovato anche avvincente, perché Maugham, fino dall’inizio, suscita una sorta di attesa: dapprima, di sapere cosa vuole Kear dal narratore, poi di scoprire come le vicende di Driffield e di Rosie si erano intrecciate con quelle di Ashenden. Il lettore, alla fine si trova anche davanti a un piccolo colpo di scena, di quelli che fanno piacere.
Trovo assolutamente necessario, per rendere un poco l’idea di com’è scritto questo libro, riportare alcune citazioni.
(La casa dei Driffield a Londra, fra il poetico e l’ironico)
Limpus Road era una strada lunga, larga e diritta, parallela alla Vauxhall Bridge Road. Le case si assomigliavano tutte: intonacate di tinte neutre, solide, con portici solenni. Costruite, suppongo, per essere abitate da gente con una certa posizione nella City. Ma la strada era decaduta, o non aveva mai attratto gli inquilini giusti; e nella sua sfatta rispettabilità aveva un’aria a un tempo furtiva e sciattamente dissipata; faceva pensare a persone che avessero visto giorni migliori e adesso, un po’ alticce, parlassero della distinzione sociale goduta in gioventù.
(Sulla politica)
…a parte il fatto che nessuno può aver frequentato l’ambiente politico senza accorgersi che non occorre (a giudicare dai risultati) una gran levatura mentale per governare un paese.
(Aschenden riflette sul fatto che sono in troppi a sentirsi scrittori, e si spinge a immaginare di assegnare a ciascuna categoria di nobili un genere di scrittura) (pos 1738)
Uno dei massimi benefici conferiti al mondo dall’istruzione obbligatoria è l’ampia diffusione tra la nobiltà grande e piccola dell’esercizio della scrittura. Horace Walpole scrisse a suo tempo un Catalogue of Royal and Noble Authors; oggi un’opera del genere avrebbe le dimensioni di un’enciclopedia. Un titolo, sia pure di cortesia, può fare di chiunque o quasi uno scrittore famoso, e si può fondatamente affermare che per il mondo delle lettere non c’è miglior passaporto del rango. In verità, a volte penso che siccome la Camera dei Lord sarà inevitabilmente abolita tra breve, sarebbe un’ottima cosa se la professione letteraria fosse per legge riservata ai suoi membri e loro mogli e figli. Sarebbe un garbato indennizzo offerto dal popolo britannico ai Pari per la rinuncia ai loro privilegi ereditari.
(Ad esempio, per i duchi:)
Corona della letteratura è la poesia. Fine e meta suprema; l’opera più sublime della mente umana; la bellezza raggiunta. Lo scrittore di prosa non può che farsi da parte, quando passa il poeta; il poeta fa strame dei migliori di noi. È ovvio che il poetare va riservato ai duchi; e vorrei che i loro diritti fossero protetti con leggi e sanzioni severissime, poiché è inammissibile che questa nobilissima tra le arti sia praticata da altri che i più nobili tra gli uomini. E siccome anche qui deve regnare la specializzazione, pronostico che i duchi (come i successori di Alessandro Magno) divideranno tra loro l’agone poetico, limitandosi ciascuno alla sfera che l’influenza ereditaria e l’inclinazione naturale lo ha reso idoneo a coltivare: vedo, quindi, i duchi di Manchester scrivere poemi di carattere didattico e morale, i duchi di Westminster comporre odi esaltanti sul Dovere e le Responsabilità imperiali, mentre immagino che i duchi del Devonshire scriveranno probabilmente liriche d’amore ed elegie alla maniera di Properzio; ed è pressoché inevitabile che i duchi di Marlborough cantino idilli su temi quali la felicità domestica, la coscrizione e il contentarsi di una vita modesta.
(Parte della descrizione di Mrs Barton Trafford, donna che contribuiva a lanciare gli scrittori)
La signora dava la curiosa impressione di essere disossata; sembrava che a strizzarle uno stinco (cosa, beninteso, che il rispetto per il suo sesso, oltre alla quieta dignità che spirava dalla sua persona, non mi avrebbe mai consentito di fare), sembrava, dico, che le dita si sarebbero toccate. Quando le stringevi la mano ti pareva di stringere un filetto di sogliola. Quando stava seduta sembrava che fosse priva di spina dorsale, e imbottita, come un soffice cuscino, di piume d’oca.
(Più avanti, sulla sua cattiveria)
Credo si possa dire fondatamente che Mrs Barton Trafford traboccava del latte dell’umana bontà, ma mi resta il sospetto che se mai il latte dell’umana bontà è stato intriso di vetriolo, così fu in questo caso.
(L’alba, per me un’immagine originale e poetica)
quando aprii la porta e uscimmo in strada l’alba ci corse incontro come un gatto che balza su per le scale.
(La strada di Blackstable, il paese in cui Ashenden ha vissuto infanzia e adolescenza)
Proseguii lungo la strada, ed ecco la banca, con la facciata rifatta; ma la cartoleria dove avevo comprato carta e cera per fare ricalchi con un oscuro scrittore incontrato per caso era immutata. C’erano due o tre cinematografi, e i loro manifesti sgargianti davano d’improvviso a quella via dignitosa un’aria dissipata, da vecchia signora perbene che avesse bevuto un goccio di troppo.
(Un’osservazione autobiografica del narratore Ashenden)
Ho notato che quando sono più serio la gente tende a ridere di me; e a dire il vero mi è accaduto, rileggendo dopo qualche tempo brani miei scritti dal profondo del cuore, di essere tentato di ridere di me stesso. Si direbbe che ci sia qualcosa di naturalmente assurdo in un’emozione sincera, anche se non so immaginare perché; a meno che sia perché l’uomo, effimero abitante di un insignificante pianeta, con tutta la sua sofferenza e le sue lotte, è solo il trastullo di una mente eterna.
(Dopo aver detto che lo scrittore ha un bel po’ di grattacapi; da giovane è povero, poi dipende dalla volubilità del pubblico, tutti lo cercano ma per proprio tornaconto… )
Ma c’è, per lo scrittore, un compenso. Ogni volta che qualcosa gli pesa sull’animo, si tratti di una riflessione tormentosa, o del dolore per la morte di un amico, di un amore non corrisposto, di orgoglio ferito, di collera per il tradimento di qualcuno verso il quale si è comportato con bontà, insomma di qualsiasi emozione o pensiero conturbante, allo scrittore basta metterlo nero su bianco, usandolo come tema di un racconto o ornamento di un saggio, per toglierselo dalla mente.
Infine, nella postfazione, dopo aver negato di essersi ispirato a questo o quello scrittore ma di aver preso piuttosto un tratto di uno, un tratto di un altro e ancora uno, parla ancora della pubblicità che uno scrittore si deve fare per farsi notare e magari leggere. Ad esempio:
Ogni anno centinaia di libri, molti di notevole pregio, passano inosservati. Ognuno è costato all’autore mesi di lavoro per scriverlo, e forse anni di riflessione; l’autore vi ha messo qualcosa di sé che va perduto per sempre; è straziante pensare com’è probabile che, nella calca del materiale che grava sul tavolo dei critici e sugli scaffali delle librerie, il libro venga trascurato. Non è innaturale che l’autore usi tutti i mezzi che può per attirare l’attenzione del pubblico. L’esperienza gli ha insegnato come procedere. Deve fare di sé un personaggio pubblico. Deve tenersi in primo piano.
Sinossi
Alle vedove dei grandi scrittori tocca spesso in sorte di trasformarsi in vestali, per mantenere la memoria del caro estinto al riparo da scandali e pettegolezzi. Non è mai un compito facile, e la seconda signora Driffield lo sa bene. Se poi al momento di individuare un agiografo affidabile la scelta ricade su un uomo come Alroy Kear, astro nascente della scena letteraria, ma già noto per «essere in grado di spolpare un uomo fino all’osso, senza per questo serbargli rancore», il minimo che possa accadere è che dal passato del riverito Edward Driffield riemerga almeno un fantasma. Che ha le sembianze – inaccettabili per i frequentatori dei salotti londinesi, irresistibili per chiunque altro – di Rosie, la prima signora Driffield. Da questo spunto Maugham ha ricavato una commedia di costume divertentissima e feroce. E se alla sua uscita nel 1930 (quando chiunque riconosceva nei personaggi tutte le leggende dell’epoca, da Thomas Hardy a Hugh Walpole fino all’autore stesso nei panni della sua controfigura prediletta, il narratore Ashenden) il libro suscitò enorme scandalo, oggi viene da molti ritenuto l’opera in cui Maugham si è spinto più lontano – addirittura, sostiene Gore Vidal, fino a Jane Austen.
Tutte le citazioni sono tratte da: Maugham, W. Somerset. Lo scheletro nell’armadio (Biblioteca Adelphi) (Italian Edition) (posizioni nel Kindle 2448-2449). Adelphi. Edizione del Kindle.