Pura siccome un angelo
Iddio mi diè una figlia;
se Alfredo nega riedere
in seno alla famiglia,
l’amato e amante giovine,
cui sposa andar dovea,
or si ricusa al vincolo
che lieti ne rendeva.
Deh non mutate in triboli
le rose dell’amor.
A’ prieghi miei resistere
no, no, non voglia il vostro cor.
(dall’atto secondo de “La Traviata”,
musica di Giuseppe Verdi,
libretto di Francesco Maria Piave)
Quando Giorgio Germont, nel secondo atto, si presentò a Violetta come un latore di destino, Ada, come sempre, si indignò.
Conosceva La Traviata a memoria e avrebbe potuto cantarla, anche se non bene per carenza di voce e di adeguata formazione musicale, dall’inizio alla fine senza sbagliare una parola: ciò nonostante, ogni volta che l’ascoltava, e ancor di più se la vedeva a teatro, provava una grande rabbia per quel modo tutto maschile di dividere le donne in due categorie, quelle per bene e le altre, e per quella specie di amore, capace solo di possedere, ma non di comprendere, sostenere, rispettare. Sapere che all’epoca in cui era ambientata la storia il femminismo era ancora di là da venire e che Verdi stesso aveva inteso condannare l’ipocrisia e la morale borghese, non bastava a placare la sua collera.
Quegli uomini che passavano nella vita di Violetta erano ciechi ed egoisti, ciascuno le chiedeva qualcosa per darle in cambio solo briciole. Briciole di un amore affogato nell’orgoglio e nella gelosia, briciole di una pietà e di un rimorso inutili e tardivi…
Pura siccome un angelo… quei versi evocavano nella mente di Ada l’immagine di una ragazza di buona famiglia, timida, vergine, bene educata, graziosa ma non bella, ignara causa della tragedia che avrebbe condotto a morte Violetta.
Mentre Germont cantava le sue ragioni la fantasia di Ada dette vita ai personaggi appena nominati: le mostrò l’uomo tanto per bene da rifiutarsi di sposare la giovine perché il fratello viveva con una cortigiana e ne smascherò l’ipocrisia: proprio lui, che aveva frequentato più e più volte le Violette di turno, adesso si ergeva a giudice degli altrui costumi; le svelò la fanciulla, che piangeva nella sua camera per l’ingiustificato abbandono, mentre il padre sulla scena vi poneva rimedio, a sua insaputa, e convinceva la traviata a sacrificarsi per lei, lasciando Alfredo.
Anche Ada pianse, pianse con Violetta nel secondo e nel terzo atto, per le parole, la musica e l’interpretazione struggente. Non le era mai accaduto di partecipare a quanto si svolgeva in teatro in modo così totale come in quel momento e avvertì il prepotente bisogno di esaudire il desiderio provato fin dal primo ascolto dell’opera, tanti anni prima: riscrivere la storia di Violetta. Asciugò le lacrime e, al buio, più per la necessità di farlo che per il timore di dimenticare l’idea che andava sviluppando mentalmente, scarabocchiò poche frasi sul programma: la giovine pura, sorella di Alfredo non accetterà di costruire la propria felicità sull’infelicità di un’altra donna, ma le darà il suo rispetto e la sua solidarietà e, raccontando la verità al fratello, l’indurrà a riconciliarsi con lei prima che sia troppo tardi.
Uscì dal teatro mentre ancora scrosciavano gli applausi per i cantanti e il direttore d’orchestra che si era unito a loro sul palco e guidò veloce verso casa. Appena varcata la soglia, gettò il cappotto su una sedia, levò le scarpe infilando i piedi gelati nelle calde pantofole e sedette al computer: Violetta aspettava da lei un nuovo destino. E non solo Violetta, ma anche e soprattutto l’ignara fanciulla che il libretto dell’opera univa a un uomo per cui la morale e le convenzioni contavano molto più dell’amore.