Mi capita talvolta di leggere libri che fanno parte di una serie senza tener conto di questo fatto, cioè come se si trattasse di storie indipendenti, e quindi iniziando da un romanzo a caso, non dal primo.
Naturalmente quando si tratta di storie ben scritte e serie ben costruite non è un problema, si capisce bene tutto, al massimo non risultano subito chiari certi dettagli, ma si possono comunque intuire o immaginare. Questo mi è successo anni fa con la saga di Harry Potter e più di recente con la trilogia di Maria Masella che ha come protagonisti gli investigatori Teresa Maritano e Marco Ardini.
Nel primo caso ho iniziato dal terzo romanzo, all’epoca il più recente pubblicato, perché era l’unico disponibile in biblioteca ed ero curiosa di capire perché le vicende del maghetto (termine orribile a mio parere, che mi aveva fatto pensare a tutt’altro tipo si storie) avessero tanto successo. Il romanzo mi è piaciuto ed è di tutta la serie il mio preferito, sarà che ho amato molto il personaggio di Sirius Black. Dopo ho letto diligentemente i volumi uno e due e poi atteso con impazienza la pubblicazione dei successivi, che ho acquistato; il settimo l’ho addirittura in inglese perché non volevo aspettare per sapere come finiva la saga…
Per quanto riguarda i romanzi di Maria Masella ho iniziato dal secondo, poi sono passata al primo e infine al terzo che, forse, è quello che si gusterebbe un po’ meno senza aver letto i precedenti. Non so dire quale dei tre mi sia piaciuto di più, direi che li ho apprezzati tutti nello stesso modo, i due protagonisti sono, a mio parere, molto interessanti e complessi.
Ma tutto questo cosa c’entra con il titolo dell’articolo?
Pensando a queste serie e al mio modo di avvicinarle non sempre rigoroso, mi sono tornati in mente i vecchi tempi – e dico vecchi perché lo sono davvero di decine di anni – quando andare al cinema era un modo di passare il tempo che prescindeva dagli orari. Innanzi tutto si entrava a spettacolo iniziato, al massimo ci si limitava a chiedere alla maschera da quanto era cominciato, giusto per avere un’idea, e questo anche se si trattava di un giallo. Quando via via le persone se ne andavano, spesso durante la proiezione non solo alla fine, se era necessario e possibile si cambiava posto prendendone uno migliore che si era liberato. E se la pellicola ci era piaciuta si rimaneva a rivederla anche per tutta un’altra volta o, almeno, quanto più possibile. Questo, soprattutto a ripensarci, dava una grande sensazione di libertà e anche di magia: entravi dentro la sala ed eri in un mondo diverso… Si poteva anche fumare e benché ora non potrei tollerarlo allora era un altro (sia pure illusorio) pezzetto di libertà. Adesso ci sono i posti numerati e la possibilità di prenotarli: è tutto senz’altro più comodo ma molto meno poetico.
Forse allora il cinema era ancora qualcosa di nuovo e magico perché la televisione c’era ma non a colori (le trasmissioni televisive a colori della RAI iniziarono ufficialmente nel febbraio 1977 – fonte Wikipedia) e si vedevano solo due canali RAI. Non eravamo sommersi di serie televisive e film e anche gli sceneggiati trasmessi in tivù avevano un poco di magia, certo molto meno di quella dei film visti sul grande schermo ma più delle serie televisive odierne, per quanto prodotte con modalità tecnicamente molto più avanzate.
Nostalgia? Forse. Ma soprattutto memoria, memoria di sensazioni provate. Memoria di una forma di libertà.
(Naturalmente credo che anche adesso potrei entrare in un cine a film iniziato e rivederlo anche due volte, ma sarebbe una cosa insolita e non la normalità: è questa la differenza)
Sopra: cartolina ricevuta all’ingresso di un cinema prima della proiezione de La prima notte di quiete, uno dei miei film preferiti che ho visto innumerevoli volte.