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C’era una volta… La Biblioteca dei miei ragazzi

La Biblioteca dei miei ragazzi era una collana di romanzi per ragazzi, pubblicati durante il ventennio fascista dalla casa editrice Adriano Salani di Firenze.

Io ho una decina di questi liCover Saettino - bibl ragazzzi okbri, erano di mia madre, e li ho letti e riletti quando ero bambina.

Magari un giorno ne rileggerò alcuni e scriverò le mie impressioni del momento. Per quello che ricordo in alcuni casi si trattava di storie anche avventurose: in una c’era un tesoro da trovare in un altro una bambina da salvare…

Adesso ho sottomano due soli volumi che, fra l’altro, sono decisamente emblematici, in quanto uno ha per protagonista un piccolo Balilla e l’altro una famiglia numerosa, di ben dodici figli.

Le copertine sono un po’ rovinate, come si può notare, ma penso che riescano comunque a dare un’idea. I due volumi sono stati stampati nel 1937 (“Saettino, puro sangue meneghino”) e nel 1939 (“Una dozzina più uno”).Cover una dozzina - bibl ragazzi ok

 

Nonostante gli anni trascorsi ho dei ricordi abbastanza vivi di queste letture, almeno di certe scene. Ad esempio, dell’inizio di “Una dozzina più uno”, in cui vengono elencati i nomi dei dodici figli che sono piuttosto normali per i primi, mentre originali, se non strampalati, per gli altri. A coloro che si lamentano per la stranezza del nome la madre risponde che un grande scrittore dice: «Quando un nome è ridicolo si ha il dovere di renderlo celebre». Ecco, questa frase non l’ho mai dimenticata.






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Domani, un racconto

Rebloggo questo racconto…

Antonella Sacco

Il fumo esce sottile dalla sigaretta, dapprima sale diritto, poi si scompone e si arrampica verso l’alto in volute sempre più larghe, sempre più incerte. Lo guardo con amore e rimorso.

“Devo smettere di fumare” mi dico.

Me lo ripeto di continuo, settimana dopo settimana, da quasi quattro anni.

“La prossima non l’accenderò fino a stasera” proclamo a me stesso, riponendo il pacchetto in tasca. Ma dopo neanche mezz’ora mi accorgo che ne sto spegnendo una da qualche parte. Un’altra. E così, continuando a promettere e a non mantenere, al calar della sera ho lasciato molte cicche dietro di me, come i sassi di Pollicino. Allora, anche per oggi, non posso che arrendermi: domani, ecco, domani, o al più tardi dopo domani ridurrò molto il numero di sigarette, addirittura andrò al lavoro con un pacchetto mezzo vuoto, così ne fumerò pochissime.

Ma quando esco non dimentico di intascare una provvista…

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Il libro dell’inquietudine, Fernando Pessoa #27

Dice Caeiro che da quel villaggio, a  causa della sua piccola dimensione, si può vedere una maggior parte del mondo che non dalla città; e per questo il villaggio è più grande della città…

Perchè io ho la dimensione di ciò che vedo
E non la dimensione della mia altezza.”

 

(Alberto Caeiro è uno degli eteronimi di Pessoa)

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Rinnovo contrattuale * un racconto * parte #3

Finalmente la riunione si interrompe. Un breve riassunto, poi andiamo a cena, in una trattoria a conduzione familiare che uno dei nostri conosce nelle vicinanze. Mangiare, oltre che un bisogno, è un modo di sfuggire alla monotonia di quella stanza marroncina; anche i miei compagni sono più vivaci davanti al cibo e al vino, la tensione si allenta, battute e risate animano la tavolata e dimentichiamo per un po’ le trattative, che più tardi riprenderanno, sempre in ristretta.

Uno dei colleghi, ritenuto dagli altri un dongiovanni a causa delle storie che – dicono – ha intrecciato con le impiegate della sede romana del nostro sindacato, un biondino di Genova della mia età, che finora mi ha ignorata, mi chiede se ho fissato una camera in albergo. Rispondo di no: rimanere a Roma così a lungo è stato un fuori programma, e, comunque, non dobbiamo essere vicini ai nostri nazionali per ogni eventuale bisogno? Lui annuisce, vagamente deluso. Dopo mi rendo conto che forse, nonostante i miei jeans, in quella domanda era celata una proposta, ma non me ne importa niente, non mi sento né lusingata né offesa, e poi alla mia stanchezza un letto fa gola solo per riposare.

Tutti, meno un paio di romani che vanno a casa, passeremo la notte nella stanza in cui abbiamo trascorso il giorno. È quasi mezzanotte, i nostri vengono a darci gli ultimi passaggi, un po’ come la radiocronaca di una partita. Una breve discussione in merito a quanto ci dicono, poi restiamo nuovamente soli e stanchi. Il tempo adesso scorre più lentamente. Ho sonno. Avvicino alcune sedie per formare un piano ove distendermi, e mi copro con il giaccone. Malgrado il mio abbigliamento pesante ho freddo. Sonnecchio, ma anche così le ore non passano mai. Cerco conforto nei miei pensieri, ma non basta immaginare di stare comodi e caldi e di allungare una mano per sentire il pelo morbido del mio gatto perché questo sia vero. Sento dei respiri pesanti intorno: le lampade sono state spente, molti si sono assopiti, chi appoggiato al tavolo, chi seduto, chi su una precaria costruzione come me. Ogni tanto avverto dei passi e intravedo contro il vano della porta, nella luce del corridoio, sagome che si muovono. Guardo spesso l’orologio nella penombra, ma la mattina sembra avere deciso di non venire.

Verso le sei non ce la faccio più: non ho passato neanche quattro ore su queste sedie, ma mi sento a pezzi, e ho dormito pochissimo. Vado in bagno e cerco di lavarmi: con le mani pulite, il viso rinfrescato e i capelli ravviati mi sento un po’ meglio. Anche la maggior parte degli altri è sveglia. Vorrei tanto un bel cappuccino caldo, sono ancora infreddolita. Con i soliti bolognesi e altri due toscani esco, diretta al bar di sotto. Ma è sprangato. Ora che siamo fuori la colazione è un obiettivo: un po’ a caso e un po’ a memoria ci incamminiamo a passo svelto nel freddo verso la strada in cui c’è il self-service, ieri abbiamo visto un bar da quelle parti; difatti c’è, chiuso; chiediamo a un uomo in divisa, forse un autista dell’autobus, e lui ci spiega che più avanti ce n’è uno, che è anche tabaccheria e di sicuro è già aperto.

Il sollievo è scarso: il locale è squallido e le paste rafferme. Mi sgomenta la strada che devo fare per tornare: non riesco a scaldarmi.

Al rientro c’è una novità. I nostri sono appena usciti dalla riunione, stanchi e con il mal di testa, ma con un possibile accordo in mano. Stanno descrivendo i punti salienti e la risoluzione di quelli controversi fino alla sera prima; i delegati chiedono dei chiarimenti, sottolineano alcune piccole sconfitte che i nazionali prontamente giustificano esibendo piccole vittorie ottenute in cambio e si stupiscono per queste obiezioni, dicono ma insomma sembra che sia la prima volta, lo sapete che contrattare significa dare per avere. Anch’io espongo le mie critiche, e, come previsto, la replica è decisa, ma come, non mi pare che si sia ottenuto abbastanza? Ribadisco che su certi punti non mi pare proprio, poi taccio, la mia disapprovazione non basta a far rimettere le cose in discussione, e poi forse non è un così cattivo contratto, sono troppo stanca per valutarlo. Nonostante alcuni dissensi, i delegati approvano, come da copione, all’alba, dopo una notte insonne.

Le ultime formalità, i nostri tornano da loro per siglare insieme l’accordo, e poi via, con una fotocopia del documento firmato, verso la stazione e un treno che mi riporta a casa.

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Rinnovo contrattuale * un racconto * parte #2

Finalmente ci sono tutti. Tutti quelli che contano, intendo, non quelli come me, che sono qui da ore, e che non hanno una parte di rilievo nella recita.

Seguiamo i nazionali e i rappresentanti dell’azienda in un’altra stanza, in cui, come in tutte, si trova un tavolo disposto parallelamente alla parete più lunga, come se fosse un palcoscenico. Da un lato di esso siedono loro, dall’altro i nostri, in modo da dare le spalle a noi che prendiamo posto sulle sedie ordinate in file fra la porta e il tavolo, proprio come a teatro o in un’aula universitaria. Ora siamo insieme ai membri delle altre due organizzazioni, in tutto un centinaio di persone, comprese quelle (una ventina) intorno al tavolo; lo spazio non è sufficiente: qualcuno è rimasto in piedi, qualcuno non è neanche entrato, tanto noi delegati non possiamo prendere la parola, al massimo tirare per la giacca uno dei nostri per ricordargli qualcosa.

Uno scambio di battute sembra avere uno scopo distensivo, prima di entrare nel vivo. Poi cominciano ad affrontare la questione. Anche se siamo vicini sentiamo poco, e quello che riesco a udire non è interessante: le controparti non fanno altro che ribadire le rispettive posizioni. Alla fine uno dei nostri si inquieta ed esclama: «A questo punto noi ce ne possiamo anche andare, voi non avete intenzione di trattare, vi convinceremo altrimenti». E si alza in piedi per dare maggior peso alle sue parole. Un mormorio di approvazione corre lungo le nostre file: bisogna essere decisi. Inutile parlare e parlare, ci vuole un bello sciopero.

Io resto incerta: e se l’esibizione facesse parte della recita? Il mio dubbio trova conferma: un altro dei nostri lo convince a sedersi ancora, poi dice qualcosa alla controparte e infine si alzano tutti; i rappresentanti dell’azienda lasciano la stanza; qualcuno dei nostri condiscendente ci spiega: «Proseguiremo in ristretta, lo sapete, si lavora meglio. Comunque, avete visto come li abbiamo messi a posto, no?»

Riunione ristretta, dunque, come sempre. Siamo venuti qui per aspettare l’esito delle riunioni ristrette. Ma quali segreti si racconteranno mai quando rimangono in pochi? A volte mi viene il sospetto che parlino d’altro, o che tirino fuori un mazzo di carte, e che sia proprio per questo che vanno due piani più in alto, perché noi non si possano sentire… secondo me il nostro contratto, almeno apparentemente, ha sempre la strada tracciata, con un paio di incontri si potrebbe siglare, e invece no, devono trascorrere dei mesi, occorre qualche sciopero…

L’ora di pranzo è passata, decidiamo quindi di andare a mangiare qualcosa. È una giornata fredda, piuttosto grigia, non trovo piacevole neppure star fuori. Percorriamo qualche centinaio di metri per infilarci in una sorta di self-service in cui non ci sono altri clienti. L’arredamento, in plastica prevalentemente arancione, sembra ricoperto da una patina di unto, e il cibo nei vassoi dietro il vetro del banco non ha un aspetto salutare. Gli uomini che non rinunciano a un pasto completo si accomodano, ma per fortuna le mie perplessità sono condivise dai miei colleghi bolognesi, e con loro torno al bar dove ieri abbiamo mangiato dei tramezzini niente male; è anche comodo, nello stesso edificio in cui si svolgono le riunioni.

Nel primo pomeriggio i nostri ci aggiornano sugli sviluppi della trattativa, chiedendoci per l’ennesima volta i limiti cui siamo disposti a giungere e i punti su cui non vogliamo cedere. Dicono sempre di sì, alle nostre richieste, poi però cercano di convincerci che, forse, si può un po’ retrocedere, mediare… Mi sento impotente: non riesco a distinguere quanto di ciò che si sta dicendo è sincero e quanto fa parte di un gioco che non so giocare. Non sto imparando niente, accumulo solo altri dubbi.

Più tardi altra ristretta: ormai non hanno più voglia di recitare davanti a noi. Che si sia davvero vicini all’accordo?

La possibilità di essere a casa per cena è sfumata, e si allontana anche quella di tornarvi a un’ora decente; forse dovremmo telefonare in albergo per fissare una stanza per stanotte. Quelli che hanno alle spalle parecchi rinnovi però mi dicono di no, se l’incontro prosegue anche noi dobbiamo restare. Non sono dello stesso avviso ma non replico.

Inganniamo l’attesa giocando a poker con delle carte formato ridotto che il collega alto atesino porta sempre in queste occasioni; usiamo dei foglietti come fiches e, probabilmente perché non giochiamo di soldi, ho una fortuna sfacciata, e mi diverte che gli altri la sottolineino; inoltre le carte sono un territorio prevalentemente maschile, e vincere è davvero piacevole. Presto però anche il poker è noia; torniamo a discutere del contratto, e si fanno previsioni su come si chiuderà, e sul quando.

Raccolgo un po’ di spiccioli e chiamo a casa, per avvisare che tornerò domani. Lui mi chiede come va, e io non posso fare altro che confermare le sue e le mie previsioni: come nelle precedenti riunioni mi sento inutile, le istanze di cui sono portavoce non vengono considerate quanto vorrei. Gli dico anche che lo invidio, perché stanotte dormirà nel nostro comodo letto insieme al gatto, e io invece sono qui, in questo posto che non mi appartiene e a cui non appartengo. Il telefono a gettoni, con quel continuo tintinnio di monetine ingurgitate, disturba le nostre parole, così ci auguriamo la buona notte.

L’ora di cena viene e passa; qualcuno è andato via, altri sono arrivati nel pomeriggio, invitati dal sentore della fine. Anch’io ho parlato un paio di volte con i colleghi a Firenze, per aggiornarli sull’andamento dell’incontro. Uno di loro è giunto da poco, per non mancare alla probabile firma, e anche lui, annusata l’atmosfera, ritiene che siamo vicini alla conclusione.

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(opera di Vinicio Berti)