C’era stato un momento, anche più di uno, qualche tempo prima, in cui aveva pensato di comprare un’automobile nuova. La sua era davvero vecchia: quindici anni e sette mesi. Ma non ne aveva fatto di nulla, nessuna di quelle che si poteva permettere era di suo gusto.
Quel mattino si rallegrò di non averla cambiata. Non sarebbe stata la stessa cosa, in una vettura farcita di optional pro sicurezza e di comfort inutili. Per il gesto essenziale che si apprestava a compiere la semplicità della sua vecchia compagna era perfetta.
L’aveva fatta lavare il giorno prima, e subito dopo chiusa in garage. Era ancora bella, portava i suoi anni molto meglio di lui e dei suoi sogni appassiti. Forse perché una macchina non ha sogni, quindi non le si possono dissolvere fra le mani e allora non soffre, o soffre meno. Non che fosse proprio sicuro di questo. Ricordava sempre l’apprensione provata la volta in cui era stato tamponato e si erano rotti i fanali posteriori: allora, e anche dopo, si era chiesto se lei non avesse sentito male. Certo non si era lamentata. Ma forse la sua voce lui non sapeva udirla.
Chissà cosa avrebbe pensato quando lui, abbassata la saracinesca del garage, si sarebbe seduto al posto di guida e avrebbe acceso il motore, restando seduto con i finestrini aperti, il cambio in folle, il freno a mano tirato, il capo abbandonato sulla spalliera, gli occhi, dopo un ultimo abbraccio all’abitacolo, chiusi.
Avrebbe capito che quel viaggio fatto senza muoversi sarebbe stato il più lungo, una partenza senza ritorno?
O forse era proprio il ritorno, chissà.
Indossò la giacca grigia, quella del suo abito migliore, comprato per il matrimonio del fratello, sei anni prima. Scese in garage. Era pronto. Aveva studiato ogni particolare: un errore avrebbe trasformato il rito in una farsa.
Prima di salire percorse con la mano il tetto dal portabagagli al cofano. Una carezza che lo confortò e gli confermò che quanto stava per fare era la cosa giusta. Gli parve quasi che fosse la prima volta che toccava il metallo della sua carrozzeria. Aveva lasciato un biglietto in cui salutava il fratello e gli chiedeva di occuparsi di lei, dopo. Lui non poteva che abbandonarla. Addio amica fedele, pensò.
Inserì la chiave nel quadro e la girò, provocando il familiare brontolio; gradatamente abbassò la leva dell’aria perché il motore non si spegnesse per la troppa benzina quando lui avesse già perso conoscenza.
Trascorsi pochi minuti ciò che respirava non bastava più ai suoi polmoni. Tossì. Soffocò l’impulso di aprire lo sportello e gettarsi fuori dal garage, riuscendo a sorridere della sua debolezza. Tossì ancora, poi, mentre immagini del suo passato presero a turbinargli impazzite nella retina, il suo capo cadde in avanti, il suo petto premette il volante e il clacson cominciò a suonare. Lui udì confusamente le prime note, poi più nulla.