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Il buio oltre la siepe – Harper Lee * impressioni di lettura

(Titolo originale “To kill a mockingbird”, Traduzione di Amalia D’Agostino Schanzer; originale pubblicato nel 1960; edizione italiana da me letta del 2010)

Nonostante il romanzo racconti una vicenda drammatica, per me somiglia a una favola. Somiglia a una favola perché ci sono dei personaggi fantastici, troppo perfetti per essere veri. In particolare Atticus Finch, avvocato e padre dei bambini Scout e Jem, i protagonisti.

Cover Buio oltre la siepe

Difficile, a mio parere, definire chi sia il protagonista, certo il personaggio più presente è Scout, che è anche la narratrice. E forse sì, è lei la protagonista, perché è dai suoi occhi e dalla sua sensibilità di bambina che ci viene narrata la storia o, meglio, alcune delle storie che si svolgono a Maycomb, la cittadina del profondo sud degli Stati Uniti in cui i Finch abitano.

All’inizio del romanzo Scout ha quasi sei anni e il fratello Jem quasi dieci; alla fine ne avranno due di più. I due ragazzi sono orfani di madre e vivono con Atticus, il padre, che è aiutato nella gestione della casa e dei figli da Calpurnia, una donna di colore che non dorme in casa con loro.

Scout ama vestirsi con i calzoni e non le piace comportarsi da bambina, ha imparato a leggere prima di cominciare ad andare a scuola e ama i libri, tanto che quando il primo giorno di scuola la maestra, le proibisce di leggere perché deve imparare a farlo con il metodo che le verrà insegnato, si trova a pensare:

Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?

Vicino alla casa dei Finch abita una famiglia il cui figlio, ormai adulto, non esce mai di casa e non si mostra neppure alle finestre; si tratta di Arthur Boo Radley. I ragazzi fantasticano su questa persona, preparano incursioni nel suo giardino anche se hanno paura. Ma i loro atti non sono mai cattivi: quello che caratterizza i due fratelli, e poi anche Dill, l’amico che vive a Maycomb solo per le vacanze, è il rispetto che portano agli altri, anche quando scherzano o giocano. Rispetto che hanno imparato dal padre, che glielo insegna con le parole e le spiegazioni e soprattutto con l’esempio.

È questo, per me, il senso della favola: la presenza di un personaggio assolutamente corretto, con un senso della giustizia e dell’equità totali, pur senza essere mai né ingenuo né illuso. Un uomo consapevole di lottare, spesso, contro i mulini a vento ma altrettanto consapevole che quella lotta va sostenuta, a maggior ragione quando è persa in partenza, come spiega a Jem parlando della signora Dubose, dopo che questa è morta.

A conferma della sua profonda umanità ed empatia, proprio alla fine, Atticus dice alla figlia:

«Quasi tutti sono simpatici, Scout, quando finalmente si riesce a capirli.»

Il fatto più rilevante che accade nel romanzo è la difesa da parte di Atticus di Tom Robinson, un uomo di colore, accusato di aver violentato una ragazza bianca. Il padre di Scout riesce a dimostrarne l’innocenza durante il processo a cui assistono anche la bambina, il fratello e l’amico Dill, ma l’uomo viene lo stesso condannato, mentre il padre della ragazza promette vendetta contro Atticus. Il senso di giustizia del padre di Scout si spinge anche a indurlo a vegliare davanti alla prigione per difendere l’accusato da un gruppo di uomini bianchi che vorrebbe ucciderlo senza nemmeno processarlo.

Inizialmente Jem e soprattutto Scout non capiscono perché il padre abbia accettato di difendere l’uomo di colore, ovvero di fare qualcosa che alla maggior parte degli altri abitanti di Maycomb sembra brutta. Si picchiano, comunque, contro i loro compagni che criticano Atticus, ma solo fino a quando lui chiede loro di non farlo più e poi spiega loro il senso e la necessità che lui faccia quello che sta facendo. Riesce sempre a farsi comprendere e a condividere con loro i suoi valori. Riesce sempre anche a capire i suoi figli e le motivazioni del loro agire e non perde mai la pazienza.

Un personaggio totalmente positivo, Atticus, altro che il principe delle fiabe…

Pure Jem e Scout (i cui nomi per intero sono Jeremy Atticus e Jean Louise) lo sono – e non potrebbe essere altrimenti – benché siano ragazzi a tutti gli effetti: impulsivi, talvolta disobbedienti, amanti delle avventure, a volte un poco incoscienti.

Intorno alla famiglia Finch ruotano molti altri abitanti di Maycomb, fra i quali ci sono personaggi sulla stessa linea d’onda di Atticus ma anche molto diversi da lui, che gode comunque della stima di molti.

In qualche modo, penso più che altro per l’ambientazione in una cittadina e per il fatto che il punto di vista è quello di una bambina, questo romanzo mi ricorda L’estate incantata di Ray Bradbury.

Insomma, se non si fosse capito, Il buio oltre la siepe è un libro che mi è piaciuto moltissimo. E sono molto curiosa di leggere Va’, metti una sentinella, il sequel scritto dopo decine di anni.


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Buona Apocalisse a tutti – Pratchett – Gaiman * Impressioni di lettura

(titolo originale Good Omens, traduzione di Luca Fusari; originale pubblicato nel 1990)

Questo romanzo si basa su un’idea geniale e dissacrante ed è una lettura assolutamente godibile. Per quanto mi riguarda però, dopo le prime decine di pagine, l’ho trovato un poco lungo, mi sembra che il racconto sarebbe stato efficace anche con qualche parola di meno. In effetti una sensazione simile l’ho provata anche leggendo altri due libri di Gaiman: mi piace molto lo spunto iniziale delle sue storie ma meno lo svolgimento.

cover buona apocalisse ok

Nel caso dell’Apocalisse, invece, ho apprezzato anche lo svolgimento, con la sola eccezione di cui sopra. L’ironia percorre ogni frase e questo è, a mio parere, uno dei pregi di questo testo.

Il romanzo racconta le vicende di personaggi biblici opportunamente rivisitati, come l’angelo Azraphel e il diavolo Crowley, nemici-amici da migliaia di anni, che si aiutano e coprono a vicenda nei confronti dei rispettivi superiori; l’Anticristo, un bambino che viene, per errore, affidato alla famiglia sbagliata… Poi ci sono personaggi inventati, coma la strega Agnes Nutter che scrive delle le profezie nel 1655 e la sua giovane discendente; un cacciatore di streghe con il suo allievo-assistente… Questi personaggi si incontrano e scontrano dando vita a scene surreali e divertenti, a volte quasi tenere.

Il tutto per ricordare che gli uomini sono capaci di distruggere la Terra da soli, senza bisogno dell’intervento divino o satanico (come si evince dalle citazioni che ho postato nei giorni scorsi).

Concludo con un altra citazione, perché mi piace la frase finale.
I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse si sono adeguati ai tempi e quindi sono centauri su grosse motociclette (i Quattro Motociclisti dell’Apocalisse, appunto) e Peste si è evoluto in Inquinamento. Riporto qui la descrizione di Morte (ricordo che gli altri due sono Guerra e Carestia), appena uscito con i compagni dalla base militare:

Morte appariva piuttosto dimesso. Il cappotto di pelle e il casco con la visiera scura si erano trasformati in un accappatoio con cappuccio, ma questo era un mero dettaglio. Uno scheletro, anche uno scheletro che cammina, conserva un briciolo di umanità: in un modo o nell’altro, Morte serpeggia, sotto mentite spoglie, in ogni creatura vivente.

 

Link alle altre citazioni dal romanzo:    la prima   la seconda   la terza.

 

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Mario Pacchiarotti, Baby Boomers

Leggere una storia di Mario Pacchiarotti è sempre un’esperienza emozionante: nel vero senso della parola i suoi scritti suscitano (almeno in me) sempre delle emozioni, delle belle emozioni. Con garbo, lucidità e, spesso, ironia, Mario racconta della realtà, anche la peggiore, per offrire una speranza.

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Anche il romanzo Baby Boomers, siamo la goccia che diventa mare, è la storia o, forse meglio, la speranza di veder realizzata un’utopia. In questo senso è un romanzo che “fa bene al cuore” (e in questo momento, con quello che sta succedendo nel mondo vicino e meno vicino da noi ce n’è bisogno) e, nello stesso tempo, induce alla riflessione. Che tipo di riflessione? Ne accenno appena, per non svelare troppo della trama e perché gli stimoli che recepiamo leggendo sono molto personali, ciascuno di noi percepisce qualcosa di diverso (ritengo la lettura un atto creativo, un’interazione fra il testo e quindi l’autore e il lettore). Mario ci propone in questo libro una possibile risposta alla domanda “questa realtà e questo mondo non mi piacciono, li considero ingiusti: posso fare come singolo qualcosa per cambiarli?” E la risposta è che ciascuno di noi può essere, semplicemente, la goccia che diventa mare.

Non dovete però temere che il romanzo sia filosofico o noioso o moralistico. Tutt’altro. C’è azione, una dose di ironia, sostenute da una buona scrittura. I personaggi sono molto umani e i protagonisti sono insoliti, dei settantenni pieni di energia, ideali e idee.

La vicenda si svolge in un’Italia futura (2030), distopica ma molto realistica, e anche in un mondo virtuale, quello di un gioco giocato da moltissime persone; le avventure del gruppo dei Baby Boomers in questo mondo virtuale fanno da specchio e integrano quanto viene da essi vissuto nella realtà.

Insomma, trovo che il testo di Mario sia assolutamente moderno e originale.

Io ho avuto il piacere di leggerlo come beta reader più di un anno fa e negli ultimi giorni mi sono goduta la versione definitiva, provando per la seconda volta, come dicevo sopra, delle belle emozioni.

Inutile aggiungere che consiglio la lettura di questo romanzo, che si trova anche in versione cartacea (per chi non ama gli ebook).


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Agnes, incipit

Il primo capitolo di questo mio romanzo breve. Spero che vi piaccia, buona lettura…

agnes

La lampada e il libro

Prendere la metropolitana è stata una pessima idea; la folla mi soffoca, il mio naso è tormentato da odori diversi di sudore, capelli, profumi, creme, abiti stropicciati e indossati più e più volte. Non vedo l’ora di giungere alla mia fermata e ogni volta che aprono le portiere sbircio fuori per leggere il nome della stazione, ma non è mai quella e nuovi passeggeri salgono e mi spingono sempre più all’interno contro gli altri che mi circondano.

Finalmente arrivo: a fatica attraverso il muro di corpi che mi separa dall’uscita e scendo. L’aria della stazione sotterranea sembra fresca e pulita dopo quella che ho respirato nel vagone. Salgo le scale e seguo le indicazioni per piazza Le Perroquet Bleu, dove tutte le settimane c’è un mercato di cose vecchie, fra le quali una mia amica ha asserito di aver visto delle lampade che potrebbero fare al caso mio. Sono mesi che ne cerco una da tenere sullo scrittoio, ma non sono ancora riuscita a vedere qualcosa che corrisponda a quella che io immagino. La mia amica è convinta che al mercatino la troverò e siccome provare non costa niente eccomi qui. In realtà provare mi è costato moltissimo, non ricordavo quanto disagio potesse provocarmi un viaggio in metropolitana. Di solito non mi muovo dal mio quartiere, lì ho tutto quello che mi serve e lo giro quasi sempre a piedi o con l’autobus, evitando le ore di punta.

La zona in cui mi trovo adesso la conosco poco, anzi per niente. Dove sarà la piazza con il mercatino? Quasi d’improvviso mi trovo in un vicolo, che si incrocia con altri vicoli e stradette, un labirinto. Allora procedo girando sempre a sinistra: ho letto da qualche parte che questo è il metodo per uscire da un labirinto, e siccome questo è solo un garbuglio di strade, venirne fuori dovrebbe essere più facile, nonostante il mio inesistente senso di orientamento. Mentre cammino mi guardo intorno: molte abitazioni sono cadenti, ma a tratti mi imbatto in case modeste e perfettamente in ordine, dalla facciata dipinta di fresco, tende immacolate alle finestre, un piccolo giardino ben curato sul davanti. Ritagliato in una palazzina di due piani il cui intonaco è scrostato e a più di una persiana manca qualche stecca, dietro l’ultimo angolo, c’è un negozio. L’insegna, la vetrina e la porta sono in legno scuro dipinto in bianco, blu e ocra, a disegni floreali e intrecci; la pittura sembra appena fatta, è lucida e pulita, neanche una screpolatura; sui vetri leggermente fumé neppure una ditata né una traccia di insetto. Nella vetrina, su un ripiano ricoperto da un drappo giallo oro con arabeschi bruni, fra libri dalle copertine consunte e le pagine ingiallite e oggetti in ceramica e in bronzo, ecco la mia lampada. È una fortuna che i miei passi abbiano seguito la strada sbagliata.

Entro decisa e il mio passaggio è sottolineato da tintinnii e fruscii, di mille piccoli oggetti appesi alla porta e allo stipite. Odore di polvere, discreto, se non ci fosse il negozio sembrerebbe finto.

Mi avvicino al banco, che non è altro che un tavolo di legno, appoggiato su una grande zampa formata da serpenti incrociati, che con la coda si appoggiano a terra e con la testa sorreggono il piano. Il rumore che ho provocato varcando la soglia si affievolisce e, mentre mi guardo intorno, un uomo appare da dietro una tenda scura, che nella penombra sembra una parete.

Il banco è illuminato da un lampadario di cristallo dagli innumerevoli pendenti; mentre l’uomo si avvicina guardo il suo volto, ha occhi neri profondi.

Ci diamo il buon giorno, poi gli chiedo di mostrarmi la lampada in vetrina.

Una scelta raffinata” commenta lui andandola a prendere. La posa sul banco, amorevolmente, poi si volta verso lo scaffale alle sue spalle ed estrae da un cassetto una lampadina; l’avvita, infila la spina e voilà, la mia lampada funziona; sono così concentrata su di lei che non mi accorgo nemmeno che l’uomo ha spento le altre luci per mostrarmi l’effetto al buio.

Vorrei sapere il prezzo ma esito a chiederlo: un po’ perché mi sembra un sacrilegio mescolare il denaro con un oggetto d’arte, un po’ perché temo che costi troppo per le mie tasche e allora preferisco non saperlo ancora e illudermi di potermela permettere. Lui mi legge nel pensiero, del resto è normale che adesso io stia pensando a questo, e mi dice che è un vero affare, costa pochissimo, e infatti ha un prezzo alla mia portata.

È di valore ma l’ho avuta per pochi soldi” mi spiega e mi mostra un piccolo segno sotto la base: è il marchio della fabbrica, cioè la sigla della persona che l’ha disegnata: LR, ovvero Robert Lorier. È un nome che non ho mai sentito, non me ne intendo di queste cose.

Questo Lorier aveva un parente pittore, forse il padre o il fratello, aggiunge l’uomo, da qualche parte in bottega c’è un libro che parla di lui. Gli dico che compro la lampada e, mentre conto le banconote, lui con destrezza la sistema in una scatola tirata fuori chissà da dove. Mi chiede se deve farmela recapitare o se la porto con me. Io penso alla ressa della metropolitana, ma non voglio separarmi subito da questo oggetto che è appena diventato mio. Dirigendomi verso l’uscita abbracciata allo scatolone urto una pila di volumi che sporgono da uno scaffale. Poso la scatola in terra e mi chino per raccogliere i libri che ho fatto cadere. Lui è subito accanto a me e insieme li rimettiamo a posto. L’ultimo, mi fa notare, è proprio quello di cui mi parlava, la biografia del Lorier pittore. La copertina è di un celeste pallido, l’autore una donna che ha il mio stesso nome di battesimo, Agnes. Mi incuriosisce e decido di comprarlo ma, prima che possa dirglielo, l’uomo mi precede e me lo offre in regalo. Lo ringrazio e gli chiedo perché; lui risponde che evidentemente il libro mi stava aspettando e lui ha solo avuto il compito di custodirlo per me: c’è tanta naturalezza nella sua voce mentre lo afferma che non so replicare, per quanto trovi bizzarra la sua cortesia.

Esco. Verso occidente il sole ha insanguinato un branco di nuvole pigre distese sull’orizzonte; fra non molto scivolerà dietro le case e poi sparirà del tutto.

Percorro le strade del quartiere labirinto, e sento ancora addosso gli occhi dell’uomo, ma è uno sguardo buono, come se intendesse accompagnarmi fuori dalle viuzze tutte uguali, lo sa che sarei capace di perdermi, nonostante le indicazioni che mi ha dato. Invece arrivo alla stazione della metropolitana che ancora il cielo è rosso.

Trovo posto a sedere, così il mio bagaglio non mi crea problemi né rischio di romperlo. Poggio la scatola a terra fra le gambe e inizio a sfogliare il libro. Vengo assorbita a tal punto dalla storia che mi accorgo di essere alla mia fermata quando le portiere si sono già chiuse. Sospiro. È forte la tentazione di lasciarmi cullare dal movimento della vettura e proseguire nella lettura ma mi costringo ad alzarmi. Scenderò alla prossima stazione e tornerò indietro con il treno che va nella direzione opposta.

Quando approdo sul marciapiede il sole è ormai tramontato del tutto: la sera è quasi diventata notte e una luna tonda color zabaione se ne sta appesa lassù alla mia destra. La strada verso casa è faticosa, la scatola mi pesa sulle braccia e quando entro nel portone un cartello mi avvisa che l’ascensore nel mio palazzo è di nuovo guasto, costringendomi a fare a piedi cinque piani di scale.

L’ora di cena è vicina, ma sono stanca e non mi va di cucinare e, soprattutto, sono impaziente di leggere il libro: così mi accomodo sulla mia poltrona, illuminata da una lampada a stelo, e mi immergo di nuovo nella biografia di Claude Lorier. Quando alzo la testa verso l’orologio appeso al muro sulla parete vedo che sono già le nove passate. Ecco perché qualcosa nel mio stomaco non va; è meglio che mangi un boccone: taglio una fetta di pane, un pezzetto di formaggio e sbuccio una mela, mettendo tutto in un piatto, da tenere sulle ginocchia mentre continuo la lettura. L’equilibrio non è perfetto, ma ho conciliato i due interessi, quello degli occhi e quello dello stomaco, che smette presto di brontolare e lascia che mi dedichi in pace a Claude Lorier.

Fin dalle prime pagine ho capito che il pittore è il padre del disegnatore di lampade e anche che Agnes Gravellon, l’autrice della biografia, aveva senz’altro un rapporto profondo con Claude Lorier, di odio-amore, direi; talvolta infatti ne esalta le qualità e le opere, talaltra ne sottolinea impietosa i difetti, le meschinità. Lo critica molto, ad esempio, per il modo in cui si prende cura del figlio: a momenti di affetto totale alterna giorni in cui quasi non ne avverte la presenza. Non parla mai di una moglie, forse è morta o forse andata via, perciò il pittore deve anche colmare l’assenza della madre, ma questa responsabilità a volte se la scrolla dalle spalle, è un peso troppo grande per il suo corpo costretto su una sedia a rotelle.

L’invalidità è una buona scusa, dice sempre Agnes, un ottimo alibi dietro cui nascondersi. Ma poi si tuffa nella descrizione di un dipinto e dello stato d’animo che lo ha fatto nascere (o che lei vi legge) e allora non esiste altro che Claude Lorier pittore, senza corpo, senza difetti: il coraggio di un sentimento, di un’emozione confessati su una tela.

Mi chiedo che tipo fosse questa Agnes, tento di immaginarla da ciò che traspare di lei nella storia dell’altro e nelle parole che usa. È un lavorio continuo nella mia mente, mentre divoro pagina dopo pagina. La presenza di questa donna è forte, a tratti sembra sovrastare quella del pittore di cui si è eletta biografa. Quella che ha scritto è comunque una biografia assolutamente non convenzionale, in cui i dati oggettivi sono quasi del tutto assenti, tanto che mi chiedo se il pittore ha vissuto davvero a Varbles, come Agnes afferma, o no.

L’ultimo capitolo è breve e il tono cambia all’improvviso, diviene quasi una cronaca, ma avverto, sotto l’esposizione sintetica dei fatti, l’urlo di un dolore che cerca di restare nascosto: Claude Lorier è morto. Il linguaggio si fa scarno, essenziale, pochi cenni alla malattia che colpisce l’artista. Non trovo nessuna indicazione sul luogo in cui le sue opere sono conservate, o almeno in cui erano al momento della stampa della biografia.

Come vorrei vedere i quadri di Claude Lorier. Nel libro non c’è neanche una riproduzione e quanto descrive Agnes è più legato allo stato d’animo dell’autore e dello spettatore che all’aspetto delle tele. Le indicazioni sono frammentarie, riguardano soprattutto particolari o tecniche e poco le opere nella loro interezza: la mia fantasia mi propone delle possibili immagini ma temo che siano assai diverse dagli originali.

Andrò in biblioteca, domani, a cercare notizie su Claude Lorier e foto dei suoi quadri. Mi incammino verso la camera e vedo in un angolo la scatola con la lampada: non l’ho neppure scartata, eppure ero così contenta di averla trovata. Questo libro mi ha come stregata, forse mi sono fatta condizionare dalle parole dell’uomo del negozio, ma sento che, per me, non è un libro qualunque.

Ripetendo la frase che ha accompagnato il dono della biografia mi rendo conto che ne riecheggia in certo modo un’altra, di tanti anni fa. Una frase che, a quel tempo, ha segnato il mio destino. E adesso cosa succederà se non ignoro i richiami di Claude Lorier? Il corso della mia vita potrebbe cambiare di nuovo? Un brivido quasi impercettibile mi sale per la schiena. Allora non è stata di buon auspicio ma, alla mia età, è sciocco avere timori.

 

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Andrè Gide, I falsari

Ho trovato questo romanzo molto interessante e stimolante, sotto vari punti di vista. Di certo è uno di quei libri che andrebbero letti più volte, per poter cogliere meglio tutti (o quasi) i tanti elementi.
La mia lettura è stata attenta, ma in un testo così complesso, probabilmente, mi sono persa qualcosa. Nel seguito cerco di spiegare alcuni degli aspetti che ho apprezzato di più.

i falsari Cover

Quello che mi ha subito colpita è la capacità di descrivere la psicologia dei personaggi; Gide doveva essere un attento e sensibile osservatore, e ha espresso in modo molto preciso il come e il perché di azioni e non azioni.
Qui per esempio, un personaggio femminile racconta a un amico di una conversazione avuta con un altro amico:

… Non ho mai inteso nulla di più patetico in vita mia. Eppure, mentre lui parlava, comprendevo che si andava distaccando dal suo racconto. Si sarebbe detto che il sentimento lo abbandonasse con le parole. E sembrava essermi grato di questo sostituirsi della mia emozione alla sua.”

e qui il protagonista, Eduard, parlando di un’anziana coppia a cui ha fatto visita, annota nel suo diario:

Ho notato spesso tra coniugi quale intollerabile irritazione suscita nell’uno la più piccola forzatura del carattere dell’altro, perché la “vita in comune” produce l’irritazione sempre allo stesso punto. E se l’irritazione è reciproca, la vita coniugale diviene un inferno.

E anche qui, quando descrive il giovane Olivier che va a riscontrare alla stazione Eduard che arriva a Parigi:

Forse, se Eduard e Olivier avessero saputo esprimere meglio la gioia di ritrovarsi, non avremmo a deplorare gli avvenimenti che seguirono; ma tutti e due avevano una singolare incapacità a misurare il livello del proprio credito nel cuore e nello spirito altrui, e questo li paralizza entrambi; così ognuno di loro si credeva il solo ad essere commosso, e tutto preso dalla propria gioia e quasi confuso dall’avvertirla così viva si preoccupava soltanto di non lasciarne trasparire l’eccesso.

I personaggi, sia i principali che gli altri, sono tutti davvero ben disegnati, vivi e reali con le loro debolezze e i loro slanci.
Il racconto è comunque molto razionale, in certo senso non commuove mai, nemmeno quando espone fatti dolorosi o tristi (e ve ne sono); non intendo dire che non vi sia partecipazione da parte dell’autore, ma è come se Gide volesse mantenere un certo distacco e osservare i suoi personaggi e le loro vicende con sguardo di scienziato.
Ad esempio, questo brano, dal diario di Eduard:

6 Novembre – Non sono mai stato capace di inventare nulla. Ma sono davanti alla realtà come il pittore col suo modello, quando gli dice: “dammi questo gesto, prendi questa espressione che mi occorre.” I modelli che la società mi fornisce, se conosco bene le loro molle, posso farli agire a mio talento; o almeno posso proporre alla loro indecisione certi problemi, che essi risolveranno a loro modo, e dalla loro reazione trarrò profitto. Come romanziere mi tormenta il bisogno di intervenire; di agire sul loro destino. Se avessi più immaginazione costruirei degli intrighi; io li provoco, osservo gli attori, poi lavoro sotto la loro dettatura.

7 Novembre – Di quello che ho scritto ieri neppure una parola è vera. Rimane questo: che la realtà mi interessa come materia plastica; ed ho più considerazione per quello che potrebbe essere che per quello che è stato. Infinitamente di più. Mi chino vertiginosamente sulle possibilità di ciascuno, e piango tutto quello che è atrofizzato dal coperchio delle convenzioni.

Un altro punto fondamentale, che credo sia quello per cui il romanzo è maggiormente famoso, sta nel fatto che il protagonista, Eduard, è uno scrittore che sta scrivendo un romanzo, dal titolo “I falsari”; prende appunti su un diario (vedi alcune citazioni precedenti) e talvolta parla del romanzo con altri personaggi. Il punto cruciale è che la storia che Eduard sta scrivendo è quella che Gide racconta ne “I falsari”.
In più punti Eduard-Gide propone riflessioni sulla scrittura: raccogliendole si potrebbe comporre un piccolo manuale di scrittura creativa. Particolarmente interessante e intrigante è l’appendice, il “Diario dei falsari”: appunti presi da Gide durante la stesura (durata sei anni) del romanzo, con annotazioni per la trama, modifiche da apportare, stato dell’arte. Ad esempio:

18 gennaio (1921)
Devo annotare qui soltanto le osservazioni d’ordine generale sul formarsi, la composizione e la ragion d’essere del mio romanzo. In qualche modo questo quaderno deve diventare il “quaderno di Eduard”. Scrivo su schede quello che può servire: materiale minuto, battuto, frammenti di dialoghi e soprattutto quello che può aiutarmi a disegnare i personaggi.

Penso che sia un romanzo da leggere, soprattutto da parte di chi, come me, ama anche scrivere. Io devo l’incontro con questo libro di Gide alla curiosità che ha suscitato in me l’articolo confessioni di una neo iniziata alla letteratura francese pubblicato sul blog the lark and the plunge.

Altre citazioni dal romanzo si possono leggere in questo articolo.

 

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Pecore con gli scarponi, #10

Il distributore di benzina

Per arrivare alla biblioteca in cui lavorava Laura doveva percorrere tre chilometri e mezzo di strada e, a metà circa del percorso, c’era un distributore di benzina a cui, di solito, si fermava quando aveva bisogno di fare rifornimento.

Fino a qualche settimana prima il distributore era stato gestito da una coppia di anziani, ma negli ultimi giorni al loro posto c’era un giovanotto sui trenta-trentacinque anni. Probabilmente i due avevano ceduto l’attività per un meritato riposo, era una supposizione logica di cui però Laura non aveva certezza, perché, nonostante fosse ormai una vecchia cliente, aveva scambiato con loro pochissime frasi: laconiche conversazioni sul tempo, sul traffico.

Di sicuro anche con il giovanotto sarebbe stato difficile spingersi oltre lo scambio di saluti e dell’indicazione di quanta benzina versare nel serbatoio: non era sua abitudine attaccare discorso con tutti, benché a volte le facesse piacere fare quattro chiacchiere anche con persone che conosceva appena o che incontrava per la prima volta.

Una cosa, però, aveva destato fino da subito la sua attenzione: il giovanotto aveva sempre con sé un libro, lo leggeva mentre aspettava i clienti e lo riapriva non appena aveva finito di servirli.

Anche quella mattina, quando era passata davanti al distributore, il benzinaio era immerso nella lettura. Non era ancora riuscita a leggere un titolo, le due volte che si era fermata per il pieno lui aveva posato il volume sopra la pompa e lei non aveva visto nulla. Forse, una volta o l’altra, gli avrebbe chiesto quali fossero le sue preferenze: quando si imbatteva in qualcuno che leggeva provava sempre la curiosità di sapere cosa. Comunque, aveva già riflettuto abbastanza sul giovanotto. Avrebbe fatto meglio a catalogare i volumi nuovi che erano stati consegnati dal corriere il giorno precedente. Si mise all’opera e per quasi un’ora la cura dei suoi amici di carta l’assorbì completamente. Quando ebbe finito un gruppo di studenti bisognosi di consulenza la impegnò ancora ma, più tardi, la domanda “Che libri legge il benzinaio?” tornò ad affacciarsi alla sua mente.

 

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AUTORI A CONFRONTO: SULLA STESSA BARCA

Un articolo su questo argomento esce contemporaneamente su quattro blog: Queste pagine, Ant Sacco, Chiacchiere e distintivo e Pagine sporche. (Rispettivamente di Concetta D’Orazio, Antonella Sacco, Roberto Bonfanti e Mario Pacchiarotti) 

setssa barca

Possiamo vedere il mondo del self-publishing come un mercato, in cui tutti siamo in competizione con tutti oppure come una barca, a bordo della quale siamo tutti e che perciò conviene cercare di non fare affondare ma anzi far procedere spedita superando gli ostacoli incontrati.

Io preferisco vedere l’esperimento del self-publishing in questo secondo modo: un mezzo che può trasportare me e gli altri lontano, in un qualche altrove.

Quindi, in altre parole, ritengo che sia meglio collaborare per raggiungere un obiettivo comune a tutti o comune almeno in parte: fornire al self-publishing quella dignità che, in buona misura, in Italia non viene associata a questo termine.

Per quanto mi riguarda ho iniziato, qualche mese fa, una collaborazione con altri tre autori di cui ho apprezzato la scrittura e il comportamento in rete e nei social; questa esperienza, assolutamente positiva, è ancora in corso. Oltre a scambiarci suggerimenti e informazioni utili per le rispettive attività di scrittura e affini, abbiamo predisposto e pubblicato articoli sui nostri blog personali collegati fra loro, ovvero articoli su uno stesso argomento ma basati sulle esperienze e idee di ciascuno. Abbiamo anche iniziato un’avventura abbastanza particolare: dando voce a uno dei personaggi di un nostro libro stiamo disegnando per loro una nuova storia che li vede incontrarsi ed essere protagonisti insieme. Al momento i primi due capitoli sono stati pubblicati (prima su Facebook e poi sui nostri blog, questo è il link alla pagina) e il terzo è quasi ultimato e viene proposto via via su Facebook.

La possibilità di confrontarsi è importante ed è anche piacevole trovarsi a parlare di un interesse o, meglio, di una passione comune. Perché navigare insieme è molto più divertente che navigare contro e di sicuro ci consentirà di raggiungere mete più lontane, a tutti.

Come abbiamo già avuto modo di dire, secondo noi è fondamentale attenersi a una serie di regole (vedi il decalogo allargato) e per rispettarne alcune il reciproco aiuto riveste una discreta importanza. Alcuni modi in cui è possibile collaborare:

  1. Letture reciproche dei testi: per rilevare refusi sfuggiti all’attenzione dell’autore, per evidenziare possibili punti deboli della trama o aspetti da chiarire meglio.

  2. Scambi di opinioni sulle copertine: l’immagine che identifica un ebook ha un impatto importante sul potenziale lettore.

  3. Suggerimenti e indicazioni su siti e libri che possono essere utili per la scrittura, per le immagini, per documentarsi su un determinato argomento.

  4. Collaborazioni di vario genere: stesura di articoli, scrittura di testi a più mani.

Insomma, la parola d’ordine è collaborare, cosa che poi, a ben guardare, è anche quella che viene più naturale (o dovrebbe venire).


Pubblicato in: Riflessioni, Scrittura

Letture e recensioni, una modalità di lettura social

Recensire un libro dopo averlo letto: perché?

Fino a poco tempo fa non mi era mai interessato commentare in rete un testo che avevo letto, anche se talvolta ho scorso le opinioni altrui; da parte mia non vedevo il motivo di condividere la mia opinione.

Da quando mi sono affacciata al mondo del self publishing la mia posizione in merito è cambiata: un autore self di solito non riceve (almeno non per i primi tempi e, spesso, mai) l’attenzione di riviste e giornalisti che possono dargli visibilità e fare pubblicità alle sue opere. Di conseguenza le “recensioni” che i suoi lettori pubblicano sono una delle principali possibilità di farsi notare e quindi averne o non averne assume una certa importanza.

È ovvio che le recensioni non sono il solo biglietto per una maggiore diffusione, ma sono indubbiamente utili.

Positive e negative

Così quando leggo un ebook (perché solitamente di ebook si tratta) che mi è piaciuto lascio il mio commento, cercando di spiegare perché lo considero un buon testo e quali sono i punti di forze ed, eventualmente, quelli di debolezza. Se è possibile contatto in privato l’autore per indicargli, se ve ne sono, eventuali refusi e altre osservazioni che non ritengo sia il caso di evidenziare in pubblico perché comunque non sono tali da inficiare la qualità complessiva.

Quando un ebook non mi piace evito di scrivere una recensione negativa. Forse sbaglio, ma proprio non mi va. Non ci trovo nulla di utile nell’esporre, in mezza pagina al massimo, il motivo per cui secondo me un testo non è buono, mi sembra solo un modo per scoraggiare un aspirante scrittore. In realtà, forse, sarebbe doveroso far presente, con garbo, che un testo è invaso da refusi o errori tipografici (come per esempio uno spazio fra la parola e la virgola: “casa , eccetera”): un autore dovrebbe controllare bene almeno questi aspetti prima di pubblicare e se non l’ha fatto andrebbe invitato a rimediare.

Se quello che non funziona è la storia trovo che sia ancora più difficile spiegarlo in poche parole e poi un lettore non è un editor né un correttore di bozze, non è suo compito offrire suggerimenti; certo però non ha senso, e forse non è nemmeno tanto educato, commentare con frasi del tipo “questo racconto non sa di niente” o, peggio, “è illeggibile, non sono riuscita ad andare oltre pagina 10”. Mi capita, certo, di iniziare un ebook e non proseguire la lettura: con tanti libri da leggere non mi va di spendere il mio tempo per qualcosa che sento non mi darà niente. Però evito di dirlo pubblicamente.

Libri ed ebook in regalo

Spesso approfitto delle “promozioni gratis”, ovvero della possibilità di scaricare ebook di autori self a costo zero, e anche questo mi sembra un altro motivo per dare un feedback: se qualcuno mi regala un suo libro, anzi se mi offre la possibilità di averlo e quindi sono io che scelgo di prenderlo, ritengo che sia quasi doveroso da parte mia leggerlo e fargli sapere cosa ne penso, almeno se no penso bene.

Quando ho pubblicato i miei primi due libri li ho regalati ad alcune persone ed è stato frustrante avere un riscontro solo da un paio di loro. Ovviamente ho smesso di regalare i miei libri, però, sapendo cosa si prova nel vedere ignorato il frutto delle proprie fatiche, cerco di non fare altrettanto, certo limitatamente alle mie possibilità di letture, ovvero a quanto tempo riesco a dedicare alla lettura.

Oggettività e soggettività

Un altro fattore che mi può trattenere dal pubblicare un commento su un libro riguarda la storia in sé. Ci sono casi, come ho scritto sopra, in cui è chiaro che la storia non funziona. In altri casi invece nella storia c’è qualcosa che non mi convince ma non riesco a capire cosa sia. Forse non ho feeling con i protagonisti, forse le vicende mi sembrano un po’ forzate o inverosimili (per il contesto della narrazione, ovviamente, non in assoluto), forse gli eventi si succedono troppo lentamente o troppo velocemente o in modo quasi casuale: insomma, la storia ha qualcosa che non va ma non so spiegarmi cosa: è ovvio che non sarebbe di nessuna utilità se rendessi pubblici i miei dubbi, così mi astengo.

In realtà penso che la sensibilità di ciascuno sia rilevante nell’esprimere un’opinione su un libro (come su qualunque altra cosa): in modo oggettivo si può riconoscere che un testo è scritto in ottimo italiano e senza refusi ed errori di alcun genere, ma quanto alla trama e ai personaggi l’aspetto soggettivo di ogni lettore gioca un ruolo fondamentale, per quanto possa sforzarsi di non farsi influenzare dal gusto personale.

Anche per questo ho parlato più spesso di opinione piuttosto che di “recensione” e quando ho usato questo termine l’ho messo fra virgolette.

Lettura social

Trovo che il self publishing abbia accentuato la modalità di “lettura social”, cioè la lettura e la conseguente condivisione dell’opinione sullo “store” da cui si è scaricato l’ebook.

A contorno di questo c’è poi il fiorire di gruppi di autori e lettori su Facebook e su altri social network, in cui è possibile trovare degli spazi per scambi di idee e consigli anche proficui e comunque per condividere la passione per la scrittura e quella per la lettura.