Questo breve romanzo di Beppe Fenoglio mi ha riportata indietro nel tempo, a quando, poco più che adolescente, ho letto altre sue opere, fra cui “Il partigiano Johnny” e “I ventitré giorni della città di Alba”. Il tuffo nel passato è stato doppio, perché oltre a ricordare la me di allora, ho ritrovato una scrittura e dei temi che nei romanzi di adesso (e sì che sono trascorse solo alcune decine di anni dal 1963, anno di pubblicazione, postuma, di “Una questione privata”) non ci sono.
Forse è una scrittura meno moderna o forse solo più colta e più poetica. Spiego cosa intendo con un esempio, una parte della descrizione del protagonista:
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla più vile gradazione di biondo. All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.
Sono certi vocaboli che adesso è raro incontrare in un testo a dare alle pagine di Fenoglio (e, nella mia memoria, anche a quelle di Pavese, Pratolini e molti altri scrittori della prima metà del secolo ormai scorso) una diversa sonorità, pur se si legge in silenzio, com’è normale, un ritmo particolare.
Il romanzo racconta di Milton, un partigiano badogliano, degli azzurri cioè, in contrapposizione ai rossi, di matrice comunista, e del suo amore per Fulvia, una ragazza benestante torinese. La vicenda si svolge in quattro giorni, una breve e drammatica odissea personale di Milton alla ricerca di una verità sui rapporti di Fulvia e Giorgio, un amico comune, anche lui partigiano.
Passando vicino alla villa di campagna in cui abitava Fulvia prima dell’armistizio e ormai vuota, Milton si ferma per rivederla e ne visita l’interno con la cameriera, che lo conosce e che parla con lui del tempo che trascorreva con la ragazza e gli racconta delle visite che Giorgio le faceva dopo che lui, Milton, era partito come soldato.
Una volta lasciata la villa Milton ha un solo pensiero: trovare Giorgio per sapere da lui che rapporto aveva con Fulvia, se lei era innamorata di lui e se avevano fatto l’amore, come le parole della cameriera gli hanno lasciato supporre.
Rientrato a Treiso, paese vicino ad Alba dove si trova il presidio partigiano a cui appartiene, Milton ottiene dal suo comandante, Leo, il permesso di recarsi il giorno successivo al paese vicino in cui si trova il gruppo di Giorgio.
Scopre però che Giorgio è stato fatto prigioniero dall’esercito fascista e, probabilmente, verrà fucilato molto presto. La sola possibilità di salvarlo è uno scambio di prigionieri, ma le brigate partigiane della zona, azzurre o rosse che siano, non ne hanno. Milton allora decide di provare a catturare un soldato nemico e, dopo tanto camminare sotto la pioggia e nel fango, ci riesce. Quando l’uomo, non credendo di servire solo per uno scambio, cerca di fuggire, Milton si vede costretto ad ucciderlo.
Il giorno dopo si dirige verso la villa per farsi “ripetere tutto per filo e per segno” dalla cameriera e togliersi il dubbio che lo tormenta. Alla villa, però, ci sono soldati dovunque e a Milton non resta che fuggire. E corre via, cercando di scansare le pallottole, scivolando nel fango. E corre, corre. Sfugge ai soldati ma ancora corre. Fino che crolla.
La storia è pervasa di malinconia e dalla consapevolezza che il dubbio di Milton, in realtà, sia quasi una certezza. Ma c’è anche la determinazione del giovane che, per avere una risposta sicura, tenta un cosa quasi impossibile come quella di fare tutto da solo un prigioniero da scambiare con l’amico. E poi ci sono la campagna, la nebbia, il fango, la pioggia, i rifugi di fortuna in cui trascorrono le notti i partigiani, il poco cibo, gli abiti sporchi, il freddo. Il mondo in cui si muove Milton è reso in modo vivo, sembra di vederli e sentirli, quei giovani resi vecchi dall’esperienza e dalla probabilità che vecchi davvero non diventeranno, consci dell’ineluttabilità della scelta compiuta e della lotta intrapresa. Così la questione privata di Milton pare una cosa assurda, in un momento come quello: come si può pensare all’amore quando si deve vivere nascosti, quando si deve combattere? Ma non lo è, assurda. Perché è per quello, cioè per un amore, per un luogo in cui vivere in pace e magari ascoltare Over The rainbow, il disco che Milton aveva regalato a Fulvia sacrificando tre giorni di sigarette per acquistarlo, che i partigiani combattono. Combattono e muoiono per la vita, e l’amore, un amore come quello di Milton per Fulvia è vita.